ARICCIA: GLI SCAVI DI SANTA PALOMBA
INTRODUZIONE
(di Franco Arietti)
Le straordinarie scoperte archeologiche sui Colli Albani di questi ultimi tempi sono sconosciute al grande pubblico. Ad esempio, pochi sanno che nel comprensorio industriale di Santa Palomba, che oggi ricade nell’area del Comune di Roma ma che un tempo faceva parte dell’Agro Aricino, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la Soprintendenza archeologica di Roma ha condotto scavi sistematici “a tappeto” su un’area vastissima. I terreni sottostanti ogni edificio industriale sono stati sottoposti a indagini archeologiche preventive. E i risultati sono stati clamorosi, grazie al lavoro decennale di numerose équipes di archeologi ed al contributo dei consorzi industriali che hanno finanziato e reso possibile questa decennale impresa archeologica.
IL POLO INDUSTRIALE DI S. PALOMBA
Distante circa 7 km da Ariccia, l’area è compresa tra la Via del Mare, Via Ardeatina e Via Cancelliera. Misura circa 3 km di lunghezza e 1 di larghezza, pertanto gli scavi archeologici sistematici hanno interessato un’area di circa 300 ettari, scavata integralmente. A livello scientifico, i risultati sono assai importanti proprio perché relazionati ad un’area molto vasta, e in questa circostanza i dati sono completi e non frammentari come spesso accade nel corso di scavi archeologici che interessano piccole aree. Si può senz’altro affermare che gli scavi di Santa Palomba hanno dato una straordinaria lezione di archeologia agli stessi archeologi!
SANTA PALOMBA – Carta Archeologica dell’Agro romano (Edita dal Comune di Roma). Situazione antecedente agli scavi degli anni ’80.
LE SCOPERTE. Dal punto di vista cronologico, le scoperte abbracciano un arco di tempo di circa 1500 anni, a partire dal 1000 a.C. circa, fino alla tarda età imperiale. In tutto questo periodo sono avvenuti radicali mutamenti e trasformazioni territoriali. I primitivi tracciati stradali a cui sono succedute le antiche strade arcaiche semplicemente scavate nel banco tufaceo – pozzolanoso (dal VII sec. a.C. in poi), hanno restituito una stratificazione secolare relativa a percorsi immutati nel tempo, come hanno spesso dimostrato i vari piani rotabili rinvenuti uno sull’altro. Con l’età tardo repubblicana (dalla fine del III sec. a.C.) durante la quale assistiamo all’apparizione delle prime strade lastricate, muta radicalmente il quadro topografico. L’antica rete stradale viene abbandonata e, in qualche caso, sul fondo della sede stradale che si trova spesso alla profondità di qualche metro, troviamo delle sepolture oppure degli acquedotti ipogei che sfruttano per chilometri l’andamento delle vecchie strade. Questi mutamenti della rete viaria sono dovuti al nuovo assetto territoriale che si accompagna alla comparsa dei latifondi in cui vengono costruite le grandi ville dei proprietari terrieri. Spariscono anche le piccole casette, che dall’età arcaica a quella medio – repubblicana, si trovavano sempre ai margini delle antiche strade, con i loro orti e piccoli appezzamenti di terreno coltivati.
In questi secoli, l’intenso sfruttamento del suolo è testimoniato dall’apparizione di cave di tufo, di grandi opere di bonifica e di imponenti livellamenti. Questi ultimi, in particolare, eseguiti in aree pianeggianti e quindi a scopo agricolo, vanno menzionati per le loro impressionanti dimensioni: è stata rinvenuto, per una lunghezza di circa 1 chilometro, materiale di discarica di II sec. d.C. – costituito per lo più da cocci misti a resti organici, metallici, vetri ecc. – formante una fascia larga mediamente 50 metri e profonda fino a 3 metri! Notevoli anche le dimensioni delle opere di bonifica, eseguite tra V e IV sec. a.C., formanti grandi e profonde valli artificiali lunghe centinaia di metri, costruite per la gestione delle acque. Gli scavi hanno messo in luce, in vari punti del consorzio, numerosi pozzi afferenti alle rispettive reti di cunicoli sotterranei funzionali alla captazione e distribuzione delle acque sorgive. Per ultimo, un dato sistematico è emerso dalle numerosissime fosse di coltivazione per uso agricolo – ciascuna diversa dalle altre per forma, dimensioni e presenza o meno di massicciate sul fondo – che hanno permesso di risalire alle rispettive colture, fornendo quindi importanti dati economici relativi ai vari periodi.
AREA DEL CONSORZIO INDUSTRIALE (che ricade nel Comune di Roma)
LE STRADE ARCAICHE (VII -VI SEC. A.C.).
LE NECROPOLI. Un discorso a parte meritano le necropoli. Iniziamo col dire che da Santa Palomba provengono corredi funebri di eccezionale interesse archeologico. Com’è noto, le “città dei morti” ci forniscono molte informazioni preziose – spesso le uniche – sulle rispettive “città dei vivi”, in particolare se riferite ai momenti più antichi della civiltà latina di cui non esiste alcuna testimonianza letteraria. In questo caso diventano di straordinaria importanza i ritrovamenti archeologici, in particolare quelli che si collocano a partire dalla fine dell’XI sec. a.C. (età del bronzo finale) fino al VI sec. a.C. Il primo dato significativo è quello topografico e riguarda direttamente un aspetto fondamentale dello sviluppo delle antiche comunità albane. L’area di Santa Palomba è esterna alla cinta craterica e si estende alle estreme pendici dei Colli Albani (120 m s.l.m.), confermando quello che ormai è un dato acquisito, e cioè che la civiltà albana non si è sviluppata solo all’interno della cinta craterica – come molti sostenevano fino a qualche tempo fa, sospettando addirittura anche il loro totale abbandono e collasso culturale (teoria condizionata dal mito di Alba Longa e della sua distruzione) – ma anche, e soprattutto, all’esterno, lungo le principali vie di comunicazione.
Un altro elemento importante è il rapporto sistematico – fin dagli inizi dell’età del ferro (X sec. a.C.) – fra le tombe e tracciati stradali o, successivamente, tra tombe e strade arcaiche, ben documentato in molte altre zone dei Colli Albani; inoltre, a Santa Palomba, non esistono vere e proprie necropoli , ma piccoli gruppi di tombe sparse o sepolture isolate, distribuite nello spazio di tre km. Solo in due casi sono state rinvenute tracce di capanne risalenti all’età protostorica, per altro assai distanti tra loro. Ciò depone a favore dell’ipotesi che l’area in oggetto fosse abitata in antico da piccoli gruppi sparsi nell’area, ma in netto rapporto con uno dei nodi stradali più importanti dell’area occidentale posta alle pendici dei Colli Albani. Infatti, qui transitano le strade principali che collegano i tre centri più importanti di questa parte del Lazio Antico: Ariccia, Lavinio e Ardea; in particolare, a est dell’area consortile, si trova un incrocio importante, nel quale confluiscono le strade provenienti da Ardea e Lavinio in direzione Ariccia. Ed è proprio presso questo compitum che sono state rinvenute due tombe ipogee a pseudo – camera risalenti alla metà del VII sec. a.C. con dromos collegato direttamente al piano rotabile della strada arcaica, che forniscono un importante caposaldo cronologico per questo tipo di strade. A questo reticolo viario, si connette poi la via che collega Lavinio con Boville, forse il più importante snodo stradale albano di epoca protostorica.
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PARTE I
LA RETE VIARIA PRINCIPALE ANTICA
Nell’area di Santa Palomba si sviluppò progressivamente, in età molto antica,
un importante nodo viario. Gli scavi archeologici sistematici hanno evidenziato
che nel VII secolo a.C. il quadro dei tracciati viari che interessano l’area era
ormai stabilizzato e ben definito.
Più in generale, va rilevato che il tracciato stradale più importante del Lazio
meridionale è costituito dalla via di transumanza che collegava l’Appennino
abruzzese alla costa laziale, il cui percorso, nel tratto finale, metteva in comunicazione
Tivoli (Tibur) con l’area anziate (Antium).
Lungo questo percorso si trovava il più importante nodo viario della regione, costituito
da Bovillae (Frattocchie). Da qui transitavano due strade principali: la “salaria meridionale”
ed il tratto che metteva in comunicazione la via di transumanza con i centri costieri
più importanti della regione in età protostorica: Ardea e Lavinium (oggi Pratica di Mare).
Dalle saline veienti (oggi l’area è localizzata presso l’aeroporto Leonardo da Vinci)
il sale risaliva per una strada che attraversava il Tevere mediante il guado di Ficana
(Monte Cugno – Acilia), costeggiava il centro di Politorium (?) (Laurentina Acqua
Acetosa) e poi seguiva il moderno tracciato della via di Porta Medaglia, via della
Falcognana per terminare nell’area di Boville. Da qui il sale veniva smistato in tutti
i centri più importanti della regione: arrivava alle cinque città albane (Ariccia, Tuscolo,
Lanuvio, Velletri e Labico, cioè Colonna), alle città costiere di Ardea, Lanuvio, Anzio e
Satrico. Ma, fatto assai importante, il sale prendeva la via dell’Appennino, attraverso
Tivoli (oppure Aefula) e la valle dell’Aniene. Un altro tracciato costiero alternativo
importante garantiva il trasporto del sale dalle saline veienti anche attraverso Ficana,
Tellene e Lavinio fino ad Ardea. In entrambi i casi, le vie del sale potevano arrivare a
rifornirsi anche presso le saline ostiensi (presso Ostia Antica), però molto più ridotte
di quelle veienti oltre Tevere.
La via del sale fu alla base della straordinaria fioritura dei tre centri di Ficana, Politorium
e Tellenae, i quali, secondo la tradizione, furono distrutti dal re Anco Marcio attorno alla
seconda metà del VII sec. a.C. E’ assai probabile che ciò fu dovuto alla necessità di Roma
di intercettare e sfruttare questa fondamentale direttrice di traffici del prezioso sale
(fondamentale per la conservazione della carne) che interessava non solo tutto il Lazio
meridionale ma anche l’Italia centrale fino all’Adriatico.
Come già accennato, il secondo nodo viario è costituito proprio dall’area di Santa Palomba.
Qui convergevano e transitavano due strade di rilevante importanza: la via che collegava
Ariccia a Lanuvio e Ardea e quella che, arrivando da Boville, convogliava le greggi provenienti
dall’Appennino ai due centri costieri menzionati. E proprio all’interno dell’area industriale
è stata rinvenuta anche la “bretella” che consentiva il collegamento tra le due strade principali.
Lungo queste strade sono stati rinvenuti i sepolcreti e, nel momento più antico, alcune tombe
isolate. Questo argomento verrà trattato successivamente, nella parte II.
PARTE II
LE TOMBE PROTOSTORICHE
Premessa.
Come già indicato, l’area di Santa Palomba rientra nell’agro aricino, come si desume dalla distanza di circa 6 – 7 chilometri da Ariccia. Dal punto di vista insediativo si conferma ulteriormente quanto avviene comunemente su tutto il territorio albano, ovvero la presenza di centri principali (curie) posti in posizione strategica e che esibiscono difese naturali o artificiali, circondati da insediamenti minori, privi di difese, posti in luoghi pianeggianti aventi carattere produttivo, che spesso si trovano ai confini di ciascuna curia (è il caso di Santa Palomba). Questa situazione si manifesta chiaramente anche in altri centri laziali (specialmente nel territorio della Laurentina Acqua Acetosa) attraverso la presenza di piccoli nuclei insediativi, anche a carattere aristocratico, sparsi nel territorio, in particolare ai margini di esso, in rapporto al controllo dei confini e delle vie di comunicazione.
Anche a Santa Palomba abbiamo una evidente conferma di questa situazione topografica marginale, attraverso la distribuzione spaziale delle sepolture isolate oppure raccolte in piccoli gruppi. Tombe dello stesso periodo sono separate infatti da una distanza di circa 3 chilometri. Esse riflettono chiaramente situazioni insediative contigue ma separate, in evidente rapporto con tracciati stradali diversi e di primaria importanza. Lo stesso vale per le tracce di abitato, sparse in vari punti, come documentato nella seguente planimetria.
LE URNE A CAPANNA
Da Santa Palomba, località Palazzo, presso la strada che collegava Boville a Lavinio, proviene una tomba ad incinerazione molto particolare. Nonostante fosse stata danneggiata dalle arature, ha restituito la copertura del pozzetto – che conteneva l’urna cineraria ed il corredo – eseguita con lamelle di bronzo fissate in origine ad un supporto in materiale deperibile formanti il tetto di una capanna.
Le urne cinerarie a forma di capanna sono assai note in ambito laziale a partire dal X sec. a.C. Eseguite in ceramica, rappresentano una capanna reale, a pianta ellittica, con tetto stramineo sormontato dai pali che si incrociano sul colmo e da paletti minori, desinenti ad “L”, che trattengono il rivestimento vegetale. Sul tetto, lungo l’asse longitudinale, figurano sempre due finestrelle che servivano anche per convogliare all’esterno il fumo del focolare, mentre di solito la porta risulta fissata agli stipiti da un elemento in bronzo passante che simula il palo originale. Raramente appare una finestra laterale oppure elementi che riconducono all’esistenza di un portico all’ingresso.
Per quanto riguarda il tema della capanna, esso offre numerose formulazioni, per cui possiamo trovare in varie località laziali vasi con tetto a forma di capanna (anche a santa Palomba) oppure grandi contenitori del corredo eseguiti in ceramica, oppure in tufo, con tetto a capanna. Di norma le urne a capanna sono realizzate in ceramica, ma eccezionalmente troviamo anche esemplari in bronzo; in questa circostanza, il grande tetto che copriva il pozzetto eseguito con lamelle di bronzo da Santa Palomba rappresenta un unicum di straordinario interesse, che prelude alle scoperte di altissimo livello che vedremo, in particolare per quanto riguarda la classe dei bronzi.
Nel Lazio, il rituale dell’incinerazione delle prime fasi dell’età del ferro è estremamente articolato e vario. Di norma, anche se non sempre, esso viene riservato a personaggi di sesso maschile che svolgono un ruolo importante nella comunità e in questo caso lo status dei defunti viene sottolineato dalla presenza nel corredo di elementi che lo qualificano puntualmente.
Nelle prime fasi, all’incinerazione si accompagna la miniaturizzazione di tutti gli oggetti del corredo, per cui, oltre al vasellame, troviamo le armi (spada con o senza fodero, lancia, giavellotto, kardiophylax, scudi, doppi scudi rituali, schinieri) oppure il coltello (elemento che riconduce al ruolo sacerdotale) e gli oggetti personali (fibule, rasoio) così come oggetti relativi al corredo di accompagno, come lucerne, incensieri oppure utensili; esclusivi di Santa Palomba sono i carri in bronzo trainati da animali – un unicum di eccezionale interesse in ambito etrusco laziale – così come i due personaggi, ugualmente in bronzo eseguiti a fusione (vedi sotto).
Anche riguardo alla struttura delle tombe menzionate, esiste una certa variabilità. Nel Lazio troviamo tombe ad incinerazione entro pozzo circolare (spesso più antiche e riservate a individui importanti) oppure incinerazioni in tombe a fossa. Con l’apparizione delle prime necropoli (approssimativamente nel corso del X sec. a.C.) le inumazioni in tombe a semplice fossa sono riservate al resto della popolazione, mentre i corredi sottolineano talvolta l’appartenenza degli individui di entrambi i sessi alle rispettive classi di età connotandone i ruoli specifici.
Tornando alle urne a capanna e alle numerose fogge in cui sono eseguite, un elemento essenziale è costituito dalle decorazioni parietali che mostrano un repertorio figurativo geometrico assai elaborato. Il motivo del meandro è assai frequente, così come la svastica, entrambi ricollegabili ad un patrimonio simbolico ripetitivo, evidentemente assai diffuso, così come il loro specifico significato magico – religioso. Nel caso del meandro, si è voluto riconoscere, in modo suggestivo, il carattere apotropaico di questo genere di rappresentazioni atte alla difesa e protezione della casa, in particolare il labirinto a guardia dell’ingresso che imprigiona gli spiriti maligni.
Sempre rimanendo nell’ambito del repertorio decorativo, un motivo di grande interesse è costituito dalla frequente presenza di personaggi rappresentati in coppia sulle urne a capanna, che probabilmente trovano analogie con la coppia di figure umane maschili in bronzo con attributi sessuali molto sviluppati dalla tomba 6 di Santa Palomba rinvenuta nella tenuta Cancelliera. Un altro confronto, anche se indiretto – ma che può risultare utile per capire il senso di queste rappresentazioni di coppie di personaggi – proviene dall’ambito campano, ed è relativo alle composizioni (conservate al British Museum) famose per la loro esuberanza, in cui appare la coppia di aratori, uno dei quali esibisce entrambi gli attributi sessuali. Il carattere androgino del personaggio è in evidente rapporto con la semina (attributo sessuale maschile) e poi con la nascita della vegetazione ed il raccolto (attributo femminile).
I LARI
Il tema della fertilità (dei campi, ma anche estesa agli uomini ed agli animali), può essere sicuramente collegato anche alla coppia bronzea di personaggi aricini – a giudicare dagli attributi sessuali assai pronunciati – e forse non siamo lontani dal vero ipotizzando per loro, così come per tutte le coppie sopra menzionate – anche se con la dovuta prudenza – un ruolo meno generico, ma assai prossimo e comunque del tutto simile a quello dei Lari.
Il processo mentale che inizia dalla capanna, poi dalla coppia di alari e dal fuoco, per proseguire con il rito dell’incinerazione riservato esclusivamente a personaggi importanti (spesso capi della comunità) che vengono materialmente trasferiti nell’aldilà mediante un rituale magico religioso, rivela probabilmente che tutto ciò è solo un mezzo per poter conferire loro un ruolo specifico anche nell’oltretomba. In tal modo, i loro spiriti vengono messi in grado di continuare a svolgere lo stesso ruolo che avevano sulla terra: quello di assicurare la protezione della casa, degli uomini, animali e delle risorse economiche. La loro associazione rituale e materiale nell’aldilà con gli spiriti degli antenati (i Lari?) – documentata attraverso la nota simulazione dell’incontro dalla presenza della statuina fittile che rappresenta il defunto (eccezionalmente la defunta come a Rocca di Papa) con vaso nella mano in qualità di offerente in molte tombe ad incinerazione coeve – richiama direttamente il culto degli antenati più specificatamente rivolto ai Lari, tradizionalmente rappresentati in coppia (nei larari delle case) per tutta l’età storica, protettori dei campi e della casa, questi ultimi rappresentati nel nostro caso sulle urne a capanna.
Per ultimo, va sottolineata la relazione di questi culti con le divinità sotterranee, venerate da tutti gli Albani sul Monte Albano (oggi Monte Cavo) precedenti a Giove Laziale, simili a Dis Pater e Liber Pater, divinità agrarie rispettivamente collegate alla semina e al raccolto.
I CARRI
La presenza di ben tre carri in miniatura (tombe 1, 2 e 6), realizzati accuratamente in tutti i particolari, apparsi in contesti che si datano in vari momenti dell’XI, X e inizio del IX sec. a.C., unitamente alle panoplie (armature) complete associate ai corredi funebri, mostrano in miniatura quello che tre secoli dopo incontriamo realmente nelle tombe orientalizzanti, le famose tombe suggestivamente definite “principesche” per la straordinaria ricchezza dei corredi funebri. In quest’ultimo caso risulta evidente che il processo di differenziazione sociale è ormai concluso segnando la nascita delle aristocrazie nel corso dell’VIII sec. a.C. Da notare che questa fase – detta orientalizzante per l’apparizione di intere classi di oggetti provenienti dal vicino oriente – viene preceduta in tutto il Lazio antico dalla presenza di capi guerrieri sepolti con i loro carri e la panoplia completa entro tumuli monumentali: carri dalla forma evoluta, ma assai simili a quelli di Santa Palomba.
Per questa ragione le scoperte di Santa Palomba risultano sorprendenti, poiché testimoniano sui Colli Albani, in forma embrionale e per la prima volta nel Lazio, le fasi iniziali di un percorso culturale, quello della nascita delle genti albane, latine e romane, che daranno vita al patriziato.
PARTE III
LE TRASFORMAZIONI TERRITORIALI, LE CASE, LE VILLE
Premessa
Uno degli argomenti più interessanti è quello delle profonde trasformazioni territoriali effettuate a Santa Palomba attraverso grandi opere in particolare di bonifica e livellamento messe in luce dagli scavi archeologici intensivi. Essi verranno trattati separatamente, non tanto per la diversa cronologia, ma perché le bonifiche sono note da tempo in altri luoghi del Lazio, mentre l’imponente livellamento messo in luce a Santa Palomba rappresenta un unicum nel panorama agricolo antico dell’agro romano. Nella carta illustrativa si presentano solo le grandi opere, dal momento che le piccole attività agricole tradizionali sono testimoniate ovunque e documentate dagli scavi archeologici sistematici.
Le opere di bonifica
Queste opere sono relative a trasformazioni che interessano grandi aree. Si tratta di veri e propri alvei scavati a grande profondità con lo scopo di raccogliere e smaltire le acque che ristagnano nei vari punti delle aree agricole. Il problema degli impaludamenti era molto sentito nell’antichità, accanto a quello della gestione delle acque meteoriche, per cui si è resa necessaria la costruzione di veri e propri fossi artificiali serviti da spine laterali, spesso associati a bacini idrici altrettanto artificiali, il cui scopo era anche quello del recupero e gestione dell’acqua, da sempre un bene prezioso per i contadini.
A Santa Palomba è stata rinvenuto un grande canale artificiale (riportato di seguito nella planimetria), il cui andamento risulta pressoché parallelo alla moderna strada, ora completamente colmato dalle opere consortili. Sul fondo sono apparsi grandi argini eseguiti con muri a secco disposti a lato dell’alveo, costruiti a partire dalla fine del V secolo a.C., che testimoniano il grande lavoro di una comunità agricola evidentemente già attiva da secoli nell’area dell’agro aricino.
Questo tipo di interventi radicali per grandi aree è saldamente documentato in molti altri siti laziali e probabilmente si è cristallizzato anche nella toponomastica antica. Infatti, le celebri fossae cluiliae (da cluere, cioè purgare, drenare) ed il loro risvolto eziologico testimoniato dalla letteratura antica – che le ha collegate alle gesta del (mitico) generale albano Cluilio o quelle di Coriolano, ubicate nell’area di Roma Vecchia che segnava l’antichissimo confine dell’ager romanus antiquus – probabilmente altro non erano che imponenti opere di bonifica effettuate su terreni pianeggianti (come a Santa Palomba), soggetti a frequenti impaludamenti, presenti nell’area in cui transitava l’antica Via Latina.
Le opere di livellamento
La scoperta di un imponente livellamento (riportato di seguito nella planimetria), che interessa una zona molto ampia, ha creato inizialmente non pochi problemi a livello interpretativo. Infatti venivano sistematicamente rinvenuti in superficie materiali di discarica disposti caoticamente, come cocci, laterizi, metalli, calcinacci, resti ossei, ecc., di II secolo d.C., distribuiti per una lunghezza di centinaia di metri su un’area larga fino a 50 metri. Uno scavo in profondità, effettuato al limite orientale del consorzio industriale, ha chiarito che il deposito di materiale raggiungeva la profondità di circa 4 metri nel punto centrale della fascia di discarica; segno che i materiali venivano depositati di volta in volta a partire dai lati opposti, con il solo scopo di colmare una depressione ed ottenere le pendenze desiderate che dovevano favorire le coltivazioni agricole desiderate.
Le opere agricole tradizionali
Da tempo la nuova metodologia degli scavi archeologici effettuati su larga scala con mezzi meccanici ha evidenziato una realtà agricola del mondo antico fino a pochi anni fa del tutto sconosciuta. I ritrovamenti di opere agricole di varie epoche sono ormai all’ordine del giorno. Esse sono funzionali a tutto ciò che concerne la lavorazione dei campi e testimoniano specifiche attività agricole, come l’impianto di vigneti, frutteti, di aree destinate alle graminacee, ecc., accompagnate da tutte le attività accessorie, come scoline, argini, fossi, fino alla semplice sistemazioni degli orti e così via. La tipologia delle varie canalizzazioni ed i resti paleobotanici restituisce una serie di dati molto importanti per lo studio e la ricostruzione delle conoscenze agricole e quindi della base economica delle comunità rurali nei vari momenti dell’antichità.
Le attività estrattive
Molto frequenti nell’antichità, le cave sono documentate anche a Santa Palomba. Una di queste venne alla luce nel corso dei sondaggi archeologici preliminari in occasione della costruzione del nuovo tratto della Via Cancelliera, sotto l’ampia curva che la collega con la via Ardeatina. In quel punti si estraeva il tufo ed era ancora visibile la strada di cava che recava ancora le tracce delle slitte su cui erano caricati i blocchi.
LE CASE E LE VILLE
Le case di età arcaica e medio repubblicana
Un dato molto interessante che ha fornito Santa Palomba è quello relativo alle piccole abitazioni di età arcaica (VI sec. a.C.) e medio repubblicana, rinvenute nell’area in posizione del tutto isolata tra loro. Di norma, nel Lazio esse sono mal note e poco documentate archeologicamente; stupiscono innanzitutto le loro ridottissime dimensioni e in particolare la loro posizione immediatamente sul bordo delle strade glareate, scavate a poca profondità nel banco tufaceo. Costruite semplicemente con pareti perimetrali in graticcio (un basso muro di fondazione eseguito con blocchi a secco sormontato da un telaio di pali riempito di blocchi informi di pietrame), mostrano tutte un solo ambiente, mentre sul pavimento si rinviene di solito uno strato concotto di argilla, segno che esso veniva indurito per mezzo del fuoco; attorno alla casetta si trova di norma l’orto. Nello spazio compreso tra le varie strade, quindi nelle ampie zone interne, non si sono mai trovate tracce di case, segno evidente che la vita si svolgeva prevalentemente ai margini delle strade, dove sono state trovate anche tombe o aree sacre agresti postulate dalla presenza di statuette votive in ceramica.
Le ville di produzione.
Con la comparsa delle cosiddette “ville di produzione schiavistica” che inaugurano la produzione agricola fondata sullo sfruttamento servile (a partire dal II sec. a.C.), l’assetto topografico tradizionale di Santa Palomba che per secoli era sostanzialmente rimasto immutato, viene stravolto. Con la nascita della piccola e media proprietà (e, come vedremo, del latifondo), la rete stradale muta completamente ed è, nella quasi totalità dei casi, in funzione esclusiva dei collegamenti con Roma e delle ville di produzione locali. Il caso più eclatante riguarda l’antichissimo tracciato, semplicemente scavato nel banco tufaceo, che per secoli collegava Boville con Lavinio: esso viene abbandonato e sul fondo viene costruito e interrato un acquedotto che segue il tracciato sinuoso del piano rotabile.
Per quanto riguarda le strade, questa nuova situazione ha evidenziato un dato interessante. Infatti, i diverticoli dei fondi mostrano ora i classici basoli, ma solo per piccoli tratti, poiché si continuano a costruire strade tradizionali semplicemente scavate nel banco tufaceo; inoltre, laddove si conserva l’andamento secolare dei tracciati più antichi, la costruzione delle strade lastricate superficiali ha mostrato stratigrafie nelle quali apparivano talvolta quattro strade sovrapposte.
Sulle cosiddette “ville schiavistiche”, in particolare quelle distribuite nell’Agro romano, si è discusso molto. Inizialmente si è pensato che questo fenomeno fosse semplicemente collegato all’immissione di grandi quantità di schiavi a partire dal II secolo a.C., ma di recente è prevalsa la tesi che lo sfruttamento servile si fosse reso necessario dalla mancanza di contadini liberi, costretti al sistematico servizio militare a causa delle interminabili guerre su più fronti, oppure impiegati altrove. Si distingue tra ville rustiche e urbane, distinzione fornita dalle fonti antiche. Nelle prime operano esclusivamente schiavi e liberti e le strutture sono finalizzate esclusivamente alle attività produttive padronali; le seconde, molto più grandi e articolate, alle aree produttive o riservate al personale servile, affiancano spazi raffinati e lussuosi per i brevi soggiorni del dominus. Di norma si trovano all’interno di latifondi più o meno vasti, come quello di Santa Palomba
Delle ville rinvenute a Santa Palomba, ne presentiamo una in particolare, del tipo “urbano”: tra tutte è la più grande e, soprattutto, posta al centro di un latifondo assai esteso, di cui conosciamo anche il nome: il fundus Soranianus. Questa villa è stata recentemente studiata da Leonardo Schifi e Maria Cristina Ricci. Di questo lavoro presentiamo una breve sintesi, ringraziando gli Autori per la gentile disponibilità.
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SANTA PALOMBA (ROMA). LA VILLA ROMANA IN LOCALITA’ FONTANILE DI PALAZZO NEL FUNDUS SORANIANUS
(di Leonardo Schifi e Maria Cristina Ricci)
La villa di Fontanile di Palazzo non è stata mai scavata integralmente, ma solo perimetrata, negli anni 2008-2009, rispettivamente sui lati N ed O nell’ambito d’indagini preventive, richieste dalla Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma, funzionali ad un programma di edilizia agevolata da parte del Comune di Roma (Programma Integrato n. 3 “S. Palomba”); sul limite settentrionale del complesso è stata scavata inoltre un’estesa necropoli, tutt’ora inedita, con tombe a fossa della prima età imperiale.
Lungo il tracciato della via Ardeatina, a circa 1800 m ad E dal km 20,800 della moderna strada, all’interno della Tenuta di Palazzo, sorgono i resti di una grande villa suburbana databile alla fine dell’età repubblicana. L’area interessata dai ritrovamenti, nel comprensorio industriale E di S. Palomba, è posta sul limite orientale del confine tra il Comune di Roma e quello di Albano Laziale, nel settore perimetrale SE del IX° Municipio, già XII°; nella moderna viabilità l’insediamento è compreso tra via Pian Savelli sul lato N e via dei Papiri sul limite S (fig. 1).
Il complesso della villa si estendeva su un vasto pianoro di forma allungata e leggermente digradante verso il lato O-SO ed era delimitato a N da un canale tributario del fosso di S. Procula, mentre sul lato S confinava con il cosiddetto Rio Secco o fosso di S. Palomba. Il substrato geologico della zona è quasi completamente ricoperto dai sedimenti alluvionali dei due fossi, al di sotto del quale sono presenti i principali prodotti dell’attività del Vulcano Laziale.
I resti dell’insediamento dovevano essere già conosciuti durante l’epoca medioevale, come testimoniato da un primo documento dell’anno 936 compreso nel Regesto Sublacense 11, e in un altro risalente al 1310, riportato nella Historica Monumenta 12, nel quale, descrivendo la Tenuta di Palazzo, allora denominata Caput Lupi, si allude ai ruderi del fundus Soranianus, grosso latifondo della fine dell’età repubblicana. In base ad una recente interpretazione, il fundus si estendeva orientativamente nell’area circoscritta a N dalla via della Stazione di Pavona, sul lato SO dalla moderna via Ardeatina, mentre a E confinava con la via Nettunense ed il Lago di Vallericcia (fig. 2). Il toponimo Surano, detto anche Sorano, trova un’eco lontana nel fundus Soranianus, nominato in un’ara sepolcrale che attualmente si conserva nella vicina Tenuta Cancelliera presso il casale della famiglia D’Orazi. Il fundus Soranianus, a partire dalla tarda età repubblicana, doveva essere costituito da una proprietà terriera di dimensioni medio grandi, sfruttata a fini agricoli il cui proprietario, Q. Valerius Soranus, era un letterato latino e tribuno della plebe.
Il toponimo Soranianus, attestato fino all’Alto Medioevo nella forma corrotta Surano/ Sorano, potrebbe ipoteticamente essere identificato ancora oggi nel toponimo Sodano, nell’attuale contrada di Pian Savelli. Il complesso della villa fu individuato per la prima volta da Pietro Rosa e illustrato – sia pur sommariamente – in alcune veline di preparazione per la stesura, tra il 1850 ed il 1870, della sua Carta topografica del Lazio; in questi rilievi si riconosce solo un lungo muro, con orientamento circa NO-SE, che corre grossomodo parallelo al limite settentrionale del fosso di S. Palomba.
Solo sul finire del mese di giugno del 1965, durante un volo di addestramento del 31° Stormo elicotteri dell’Aeronautica Militare, furono eseguite una serie di riprese aree oblique a bassa quota nell’area della villa che permisero di delineare i resti delle strutture sepolte. In seguito all’individuazione dell’insediamento vennero effettuate, da una squadra dell’Aerofototeca del Ministero della Pubblica Istruzione, coordinata da Giovanna Alvisi De Sanctis, una serie di ricognizioni sull’area finalizzate principalmente alla raccolta di dati relativi alla determinazione delle condizioni del suolo, della tipologia e dello stato della vegetazione. Questo studio, condotto sull’area per alcuni mesi, fu considerato di particolare interesse in quanto le fotografie, scattate subito dopo la mietitura del grano, evidenziavano che le strutture murarie sepolte avevano prodotto dei cropmarks negativi, resi ancor più evidenti dalla presenza, su ambo i lati, di linee più scure dovute ad un infittimento delle piante di erba medica in crescita.
Le ricognizioni dirette sul terreno non fornirono molti dati, al contrario delle fotografie aeree, in quanto i materiali presenti erano scarsi e tipologicamente poco significativi; solamente una piccola superficie quadrangolare coperta da folta vegetazione, posta sul limite meridionale del complesso, risultò ricca di materiali edilizi, probabilmente accatastati durante le periodiche arature della zona. Contemporaneamente a queste indagini, con l’ausilio dei mezzi aerei messi a disposizione dall’Aeronautica Militare, fu condotta una campagna di riprese fotografiche aeree oblique a bassa quota nell’area della villa. Negli anni seguenti l’insediamento fu costantemente monitorato, ma non si ripresentarono più le particolari condizioni di visibilità dei resti riscontrate nell’estate del 1965, anche in considerazione del fatto che tutta l’area venne successivamente sconvolta dalle lavorazioni agricole. Anche l’anomalia rilevata in precedenza, consistente in un cespuglio, era stata in parte eliminata, mentre i materiali archeologici erano stati trasportati nel vicino casale di S. Palomba.
Contestualmente a queste ricerche furono realizzati, sotto la supervisione di Valnea Scrinari Santamaria, dei rilievi planimetrici della villa che permisero di sottoporre l’area a vincolo archeologico. Nel 1970 il Generale Giulio Schmiedt, dell’Istituto Geografico Militare di Firenze, pubblicava una sola fotografia dei resti della villa, scelta tra quelle precedentemente scattate nel 1965; questo documento, oltre ad essere entrato a far parte della letteratura archeologica specialistica e manualistica quale rappresentante dell’utilizzo della foto aerea per l’individuazione delle tracce archeologiche, è stato ripreso da tutta la bibliografia successiva come unica fonte fotografica (fig. 3).
Nello stesso anno Giovanni Maria De Rossi, a seguito delle ricognizioni svoltesi nella zona tra gli anni ‘60 e ‘70, elaborava uno studio del territorio, in cui venivano presentati, per la prima volta, anche una ricostruzione planimetrica e i dati relativi alla villa di Fontanile di Palazzo (fig. 4). Questo lavoro, insieme con la successiva scheda analitica curata nel 2005 da Marina De Franceschini, ha rappresentato lo studio più completo della villa.
A distanza di cinquant’anni dalla scoperta della villa di Fontanile di Palazzo il recente riesame della copiosa documentazione fotografica, conservata presso l’Aerofototeca Nazionale, ha consentito di proporre un aggiornamento della ricostruzione planimetrica della villa, adottando come base la pianta pubblicata nel 1970 dal De Rossi. L’osservazione delle foto aeree ha permesso inoltre di delineare almeno due fasi di occupazione della zona, di cui la prima è rappresentata dal nucleo principale della villa di Fontanile di Palazzo (I Fase; I secolo a.C.-I secolo d.C.), mentre la seconda è caratterizzata dalla probabile presenza di strutture funerarie, forse interpretabili come recinti (II Fase; II-III secolo d.C.?) (figg. 5-9).
L’insediamento è classificabile come una tipica villa di tipo suburbano con un nucleo abitativo suddiviso in più parti; nel settore centrale si colloca la pars urbana, nella parte settentrionale una vasta area scoperta, mentre il settore meridionale è probabilmente identificabile con la pars rustica (fig. 10). La villa, orientata lungo un asse circa N-S, presentava l’ingresso (A), forse con vestibolo, presso il lato orientale; procedendo verso O si accedeva all’atrio (B), dotato di impluvium rettangolare 56, per poi passare nel peristilio tetrastilo (C) sul quale si aprivano vari ambienti, fra cui il tablinum (D). Da questo ultimo, attraverso un ambiente rettangolare (E), si entrava in un giardino (F) con vasca absidata, posta sul lato meridionale. In asse con il tablinum (D) era presente un ingresso (G) che si trovava al centro di una serie di cubicula variamente suddivisi. Questi vani si affacciavano a N su un vasto peristilio porticato (H) con al centro una vasca rettangolare con fontana (I); in asse con quest’ultima, sul lato N, un ambiente rettangolare si potrebbe identificare con il triclinio estivo (L), inserito all’interno di un giardino (M). Collegati al portico, sul lato occidentale, si aprivano una serie di ambienti rettangolari (N) probabilmente terminanti con una exedra semicircolare, forse il belvedere, che si affacciava su un grande spazio aperto. Nella parte centrale della villa, a S del tablinum (D) si apriva un cortile quadrangolare (O) da cui si accedeva, sul lato O, agli impianti termali (P), di cui rimangono un ambiente absidato e una vasca semicircolare. A S dell’atrio (B) era presente una vasta superficie rettangolare, identificabile forse con un cortile porticato (Q), circondato da numerosi vani rettangolari. Nel settore meridionale dell’insediamento una vasta corte centrale di forma quadrangolare (R) con piazzale doveva ospitare la pars rustica, costituita da magazzini, dispense, stalle e alloggi servili. Particolarmente interessante è stato infine il riconoscimento, nella zona orientale della villa, di una probabile fornace con ambienti attigui di lavorazione (S).
E’ possibile che il complesso fosse delimitato nella parte centro settentrionale da un vasto muro di recinzione, di cui si conservano solo le tracce lungo i lati N ed E. La villa era servita da almeno due tracciati viari, posti sui lati S e SO del complesso, di cui recentemente è stata confermata l’esistenza in seguito ad indagini condotte all’interno della Tenuta di Palazzo. Probabilmente, in seguito all’abbandono dell’insediamento sul finire del I secolo d.C., l’area meridionale, relativa alla pars rustica, fu occupata da due monumenti funerari (α-β), serviti da un diverticolo stradale proveniente da SO e collegato ad una delle diverse strade che attraversavano il fundus Soranianus.
L’analisi delle recenti immagini fotografiche relative all’area della villa ha evidenziato come tutta la zona sia attualmente adibita a seminativo, mostrando solo la presenza dell’anomalia già riscontrata durante le prime ricerche del 1965. La nuova planimetria della villa di Fontanile di Palazzo deve essere necessariamente interpretata con un ampio margine di discrezionalità; tuttavia essa rappresenta l’unica ricostruzione complessiva dell’insediamento, costituendo un valido supporto di ricerca che solo uno scavo sistematico dell’area potrebbe quindi confermare.