Il Monte Albano e Prato Fabio
Con il principato di Augusto, ancora una volta Alba Longa venne risvegliata dal sonno secolare, ma stavolta il suo ciclo leggendario non divenne funzionale alla ricostruzione storica delle origini di Roma – come avvenne in particolare dal III sec. a.C. in poi – ma più sfacciatamente esso venne posto al servizio della gente Giulia e dell’araldica augustea. L’Arx Albana – come veniva denominato il promontorio di Prato Fabio – venne interessata da un culto dedicato a Venere, non sappiamo esattamente in che forma monumentale. Lo racconta un poeta, Orazio, il quale, dedicando un canto nuziale a Paolo Fabio Massimo, colui che materialmente erigerà quell’opera, esorta Venere affinché rivolga le sue attenzioni amorose allo sposo. Anche un altro famosissimo poeta di quel tempo, Ovidio, dedicò un epitalamio a Paolo Fabio Massimo (tra l’altro suo parente) in occasione delle sue nozze con Marcia, ma fu cacciato da Roma da Augusto e finì i suoi giorni relegato sulle sponde del Mar Nero per essersi inimicato il principe.
(Franco Arietti)
Dionigi di Alicarnasso e Alba Longa
Nello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso descrive Alba Longa come un luogo deserto, “dove non affiora più nulla di antico”, e si limita ad evidenziarne le possenti difese naturali e la sua posizione strategica. Da molti secoli quel luogo abbandonato non raccontava più nulla della propria storia leggendaria e tutto era mutato attorno ad esso. Per questa ragione, la sua improvvisa “monumentalizzazione” attraverso l’erezione di un tempio dedicato a Venere presso l’estremità del promontorio, l’unico posto da cui si possono vedere entrambi i laghi albani (oltre alla famosa Loggetta) dovette far molto discutere. Per capire meglio dobbiamo fare la conoscenza con Paolo Fabio Massimo.
Gli Inizi della carriera di Paolo Fabio Massimo
Paolo Fabio Massimo nacque forse nel 46 a.C. Figlio di Quinto Fabio Massimo console del 45 a.C., fu l’esponente di un’illustre e antichissima gens aristocratica romana, i Fabii, ed appartenne al ramo più prestigioso di essa, quello dei Fabii Maximi che discendevano da celeberrimo “Temporeggiatore”. Dopo un secolo di decadenza, il prestigio dei Fabii era risorto attraverso il meccanismo delle adozioni, essendosi imparentati con altre illustri famiglie come gli Emilii e gli Scipioni che avevano patito un analogo declino. I tre figli di Quinto Fabio Massimo furono Fabia Paolina e due maschi i cui praenomina Paullus (il maggiore) e Africanus, riecheggiano quelli di personaggi legati ad imprese mitiche come Lucio Emilio Paolo che sottomise la Macedonia e di Publio Cornelio Scipione Africano il quale sconfisse Annibale.
Del fratello minore Africano sappiamo solo che ebbe una carriera simile a quella di Paolo; egli divenne console nel 10 a.C., l’anno successivo al consolato ricoperto da Paolo nell’11 a.C. e poi proconsole d’Africa. Fu probabilmente Marco Tizio, marito di Fabia Paolina, il tutore dei due fratelli rimasti orfani in giovane età alla morte del padre. Questo personaggio, passando improvvisamente dalla parte di Antonio a quella di Ottaviano, rendendo quindi un servigio fondamentale al futuro imperatore, ottenne la sua riconoscenza, della quale poterono beneficiare anche i due giovani fratelli agli inizi della loro carriera.
Paolo Fabio Massimo, Augusto e il “cerchio magico” albano
Attraverso il matrimonio con Marcia, cugina di Augusto, Paolo si imparentò con esso e divenne intimo dell’imperatore. Marcia era infatti figlia di Azia minore, sorella di Azia maggiore (Atia Balba Caesonia), la madre di Augusto e nipote di Giulio Cesare. La matrice albana di questa parentela è nota: Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, era originario di Velletri, mentre la moglie Azia risiedeva nella vicina Ariccia. Com’è noto, la stessa gente Giulia vantava antichissime origini albane e Ottaviano, in parte già imparentato alla lontana con i Giulii da parte di madre, venne definitivamente a far parte della gente Giulia una volta adottato da Giulio Cesare. Infine, secondo Pesudo Acrone, Paolo Fabio Massimo aveva dei possedimenti nelle zone attorno al Lago Albano.
Il cursus honorum
In base ad una iscrizione purtroppo mutila, forse agli inizi della carriera Paolo Fabio Massimo rivestì la carica ad Atene di quaestor Augusti (tra il 20 e il 19 a.C.) quando lo stesso Augusto soggiornava in Grecia, oppure di legatus Augusti (data che cadrebbe tra il 15 e l’11 a.C.). Divenne console nell’11 a.C. assieme a Quinto Elio Tuberone poco dopo aver raggiunto il limite d’età consentito (32 anni). Prima di lui, nel 13 a.C., rivestirono la carica Tiberio Claudio Nerone e Quintilio Varo, mentre l’anno successivo il consolato venne rivestito da Messalla Appiano e Sulpicio Quirinio; alla morte di Appiano, avvenuta appena agli inizi dell’anno, Paolo Fabio Massimo rifiutò di subentrare come suffecto ed attese l’anno successivo per entrare in carica. Forse in questi anni che precedono immediatamente il suo consolato cadrebbe la data del matrimonio con Marcia, che dovrebbe datarsi al 12 a.C. Sulla data del matrimonio i pareri degli studiosi sono discordi. La maggior parte propende per gli anni 15 o 14 a.C., ma, come vedremo, i nuovi dati archeologici suggeriscono una data assai prossima al consolato dell’11 a.C. Successivamente, come vedremo, rivestì la carica di proconsole d’Asia e poi Legato propretore in Spagna (come documenta l’iscrizione su un altare rinvenuto a Bracara Augusta, l’attuale Braga in Portogallo).
Il matrimonio di Paolo e Marcia e i canti nunziali di Orazio e Ovidio.
Nel celebre epitalamio di Orazio noto come “rinuncia a Venere”, il poeta rinnova la solida amicizia con Paolo dedicando agli sposi un canto nuziale, qui riprodotto in parte. La novità assoluta, che consente per la prima volta una lettura diversa di questi celebri versi, riguarda il luogo dove verrà costruito il tempio di Venere. Non un punto romantico qualsiasi, genericamente posto in alto, dominante i laghi albani, bensì il promontorio di Prato Fabio dov’era ubicata Alba Longa. Dobbiamo evidenziare a questo punto la vistosa omissione di Orazio, il quale non nomina affatto Alba Longa, ma la qualifica perfettamente attraverso la presenza stabile dei Salii e Vestali, sacerdozi consacrati a Vesta e Marte. L’epitalamio allude chiaramente a cerimonie svolte dai collegi sacerdotali delle Virgines Vestales arcis Albanae e dei Salii arcis Albanae testimoniati dalle fonti epigrafiche, che qui evidentemente disponevano di aree di culto. In questo caso, forse non siamo lontani dal vero formulando l’ipotesi che questi sacerdozi siano stati istituiti da Augusto stesso per celebrare l’evento straordinario avvenuto ad Alba: l’unione tra Marte e Rea Silvia, la principessa albana e prima vestale della storia, da cui nacque Romolo.
Parte dell’epitalamio di Orazio che fa riferimento alla statua, ai due laghi albani, alle Vestali e Salii. Sotto il dettaglio del brano in latino.
Nelle numerose traduzioni di questo brano spesso appare l’allusione ad un “tempietto”, termine che però è assente nel testo latino e spesso postulato da vari studiosi.
Orazio probabilmente rivela l’intenzione di Paolo – una volta imparentato con la gente Giulia – di edificare un tempio dedicato a Venere. Che non si tratti di un atto privato, ma pubblico, lo dimostra però il fatto che Paolo edificò quel tempio ufficialmente in qualità di console. Sappiamo che in occasione delle ferie Latine almeno uno dei consoli era obbligato a presenziare alle cerimonie e se entrambi i consoli erano impossibilitati a partecipare, si nominava un magistrato apposito che assumeva il titolo di dictator Feriarum Latinarum causa.
La solennità delle ferie Latine, fin dalle origini, venne rinnovata rigorosamente nel mondo romano per secoli attraverso il coinvolgimento diretto delle massime magistrature dello stato, a iniziare dall’indictio, l’atto che i consoli dovevano compiere ogni anno appena entrati in carica salendo sul Monte Albano per stabilire la date delle ferie Latine (erano feste mobili, dette appunto indittive) e presiedere alle cerimonie preliminari, mentre gli Atti dell’indictio dovevano essere resi noti a Roma, attraverso la loro pubblicazione nelle sedi prestabilite.
In questo contesto assume grande importanza la scoperta effettuata sulla vetta del Monte Albano, poiché i nomi di Paolo Fabio Massimo e Quinto Elio Tuberone, consoli dell’’11 a.C., appaiono incisi sulla cassetta plumbea di distribuzione delle acque rinvenuta nella cisterna che raccoglieva l’acqua sacra proveniente dall’interno del grande recinto in cui si trovavano i templi più importanti (recinto affiancato a sua volta dalla grande tribuna dove prendevano posto i rappresentanti dei popoli latini). Dalla cisterna, un cunicolo di drenaggio convogliava poi le acque a valle, lungo il percorso della via lastricata. M. S. De Rossi che trovò la cassetta scavando la cisterna, non fornisce alcuna descrizione sulla struttura della conserva d’acqua, ma è probabile che essa sia stata costruita (oppure ampliata) nell’anno del consolato di Paolo Fabio Massimo. Di straordinaria importanza risulta inoltre dal fatto che l’acqua sacra, incanalata nelle tubazioni con i sigilli consolari, fosse aqua publica, come convenne a suo tempo lo stesso De Rossi, e, come tale, destinata esclusivamente ad un edificio pubblico sottostante, come appunto il ninfeo di Prato Fabio, posto in un luogo pianeggiante e privo di acqua.
Monte Albano vetta. Cassetta di distribuzione delle acque (da: M.S. De Rossi 1876)
L’edificazione di un tempio dedicato a Venere nel sito dove recentemente è stata definitivamente identificata la leggendaria Alba Longa ha quindi ben poco di romantico. Questa non è certo la dea dell’amore invocata da Orazio nell’epitalamio dedicato a Paolo Fabio Massimo in occasione delle sue nozze, bensì la Venere intesa come progenitrice della gente Giulia, un chiarissimo richiamo all’ideologia della Venere Genitrice inaugurata da Cesare nel suo foro, determinante per l’araldica augustea e per il progetto politico del principato
Inoltre, se davvero Alba Longa veniva intesa come Arx, come tutto lascia pensare, ciò sarebbe di estrema importanza, poché in questo caso avremmo l’unica testimonianza di come veniva percepita e ricordata, forse commemorata, Alba Longa in età augustea: non come sede di una “città” dunque, anche a causa delle sue ridottissime dimensioni, ma esclusivamente come Regia, dalla quale i reges Albanorum regnavano sul popolo di Alba insediato nei territori sottostanti. Sull’altra Arx invece (la Fortezza Pontificia), la maestosa rocca che domina ugualmente la pianura laziale, le Vergini Vestali accendevano il grande falò tratto dal fuoco sacro dell’ara da loro custodita, come ricorda Lucano, e ciò avveniva la sera del terzo giorno a conclusione delle ferie Latine.
Paolo Fabio Massimo fedele sostenitore del principato di Augusto
Nel 10 a.C., anno successivo al suo consolato, Paolo rivestì la carica di proconsole d’Asia. La sua devozione ad Augusto viene rivelata dal famoso editto, il cui testo originale, scritto in greco e latino venne diffuso ovunque nella regione. L’editto prevedeva di assumere in tutta la provincia come giorno di inizio del calendario il dies natalis di Augusto. Nella provincia orientale ancora permeata dalla tradizione ellenistica, da molto tempo i romani venivano accolti con quegli onori che anticamente erano riservati ai sovrani, per cui essi venivano celebrati con statue, feste, le loro effigi apparivano sulle monete, in loro onore si fondavano o rifondavano città, ecc. Nonostante queste celebrazioni rivolte da tempo ai governatori fossero cessate con il principato ed esclusivamente riservate ad Augusto, per Paolo Fabio Massimo fu fatta un’eccezione: risulta infatti che anche la sua effige comparve sulle monete, a lui venne dedicata una festa, eretta una statua.
Tornando all’editto, l’introduzione del genetliaco di Augusto nel primo giorno del calendario rivela un chiaro riferimento alla concezione divinizzata del princeps legata agli inizi del nuovo corso inaugurato dal suo principato. Con Augusto finiva il lungo periodo di guerre civili e iniziava una nuova era di pace e prosperità che riecheggiava quella della mitica “età dell’oro” nella quale il principe, novello Romolo, figurava come il salvatore del mondo romano giunto sull’orlo della disgregazione.
Il culto di Venere e la “resurrezione di Alba Longa”
Localizzato sul promontorio di Prato Fabio già nel corso del XVII secolo nella cartografia di Athanasius Kirker e Innocenzo Mattei, probabilmente postulato dagli scavi del 1920 che per ora hanno parzialmente messo in luce un grande ninfeo, il tempio di Venere eretto ad Alba – qualunque sia stato il suo aspetto monumentale – doveva comunque rappresentare per Augusto un evento fondamentale e per quei tempi rivoluzionario.
Carta di Athanasius Kirker. Viene evidenziata Alba Longa, il Monte Albano (Monte Cavo) e il promontorio di Prato Fabio
Rappresentazione schematica del ninfeo (visto dalla Fortezza Pontificia)
Bisogna considerare che nel mondo romano il luogo in cui si credeva fosse esistita la “città” di Alba Longa rappresentava ben poco da molti secoli. Secondo la tradizione essa venne distrutta dal re Tullo Ostilio agli inizi del VII sec. a.C. e non fu mai ricostruita; sappiamo che nel corso della storia repubblicana non venne mai celebrata ufficialmente, né ricordata attraverso rappresentazioni di vario genere, sia esse artistiche oppure a livello numismatico (probabilmente la sua reale esistenza era tacitamente messa in dubbio anche da molti storici, antiquari, ecc.) e la prova schiacciante del disinteresse e abbandono in cui versava Alba Longa in età augustea deriva direttamente dalla landa deserta descritta da Dionigi di Alicarnasso.
Pertanto, l’introduzione del culto di Venere ad Alba Longa non poteva passare inosservato, anzi, doveva apparire del tutto provocatorio agli occhi della parte politicamente avversa alla gente Giulia. Paolo Fabio Massimo era dichiaratamente schierato dalla parte di Augusto e difendeva l’idea del principe autocrate che fondava il suo potere sul consenso del popolo e dell’esercito. Tra gli oppositori figurava il ramo claudio che invece sosteneva l’idea di un principato moderato, ancora ispirato all’esperienza repubblicana nella quale il sentato ricopriva un ruolo fondamentale.
Per la tradizione, Venere era direttamente coinvolta nella storia di Alba Longa in quanto madre di Enea il cui figlio Ascanio aveva fondato quella città ponendosi all’inizio della lunga dinastia dei re di Alba. La pretesa delle gente Giulia di discendere da Ascanio, altrimenti detto Julo, è cosa nota e il tempio dedicato a Venere con l’epiteto di “genitrice” nel foro di Cesare ostentava apertamente da tempo quella posizione.
Agli occhi degli oppositori non doveva di certo essere sfuggito un particolare importante riguardo l’opera di Paolo effettuata in qualità di console sulla vetta del Monte Albano, dal momento che essa realizzava il progetto di alimentare il ninfeo di Venere con l’acqua sacra proveniente dal temenos di Giove Laziale. Che questa non fosse un’opera idraulica qualunque ma un chiaro collegamento ideologico tra Giove Laziale ed Alba era evidente, dal momento che Giove, prima dell’apoteosi, altro non era che Latino, uno dei numerosi re di Alba e, pertanto, in entrambi i casi, questo personaggio figurava sia come l’eponimo fondatore della stirpe latina che protettore della stessa come divinità.
Ufficialmente, la propaganda augustea aveva già da tempo saldamente collegato la discendenza della gente Giulia ad Enea, alla lunga dinastia dei Silvii fino a Rea Silvia e Romolo, quindi a divinità come Venere e Marte, ma ora risultava del tutto chiaro che all’araldica augustea si andava aggiungendo anche una divinità importantissima come Giove Laziale, fondatore e protettore dell’ethnos latino.
In questa prospettiva risultano evidenti i motivi che hanno spinto Orazio ad omettere il nome di Alba Longa in virtù del nuovo culto che Paolo doveva introdurre con evidenti connotazioni ideologiche connesse alle strategie politiche augustee. Il poeta ha quindi rispettosamente (e opportunamente) evitato questo argomento poiché nel suo carme nuziale Venere doveva figurare unicamente come dea dell’amore.
Per concludere, va ricordato che nove anni dopo la “resurrezione” di Alba Longa, a Roma veniva inaugurato il foro di Augusto con il tempio di Marte Ultore. Nella grande esedra presso l’ingresso principale, la statua di Enea campeggiava nella nicchia centrale con l’elogium dove l’eroe veniva celebrato come progenitore di Roma e della gente Giulia. Attorno alla statua di Enea, rappresentato in fuga da Troia con Anchise e Ascanio, venne allestita la galleria che ospitava le statue dei re di Alba.