LA VILLA DI VERMICINO
Proseguendo la rassegna delle prestigiose Ville romane del Tuscolano, presentiamo la villa di Vermicino che ha restituito importanti e pregevoli mosaici policromi con scene di gladiatori ed altre raffigurazioni. Così come la celebre villa dei Centroni recentemente presentata dall’Osservatorio, la villa di Vermicino si trovava all’estremità occidentale del territorio tuscolano, rivolta verso Roma. Essa divenne celebre per questi suoi mosaici ora conservati nel Salone d’Onore di Villa Borghese a Roma (Sala Mariano Rossi) .
(Franco Arietti)
I mosaici decoravano il pavimento di una lussuosa villa romana, in particolare quello di un ambiente voltato che si sviluppava a ridosso del peristilio, denominato generalmente (ma forse impropriamente) “criptoportico”. La villa – già nei secoli scorsi quasi scomparsa, della quale oggi non rimane praticamente nulla se non un quartiere fittamente popolato – si trovava nella zona di Vermicino, al confine del Comune di Frascati con Roma, in una località che ancora nell’800 prendeva il nome di Quarto della Giostra. I mosaici vennero rinvenuti casualmente, durante i lavori di scasso delle vigne, i quali purtroppo danneggiarono in parte quei preziosi decori pavimentali. Fu così che Francesco Borghese Aldobrandini incaricò Luigi Canina di provvedere al distacco dei mosaici, che vennero comunque in gran parte recuperati nel 1834. I vari riquadri figurati che decoravano il pavimento erano separati da disegni geometrici, in particolare da meandri, e la superficie si sviluppava lungo il cd. criptoportico per circa 24 metri in lunghezza e almeno 2,40 in larghezza.
***
LA VILLA
La villa venne costruita su due terrazzamenti posti sulla vetta di una modesta altura. Della sua esatta posizione – peraltro sommariamente indicata da Luigi Canina e dai numerosi archeologi che lo hanno seguito tra la fine dell’ottocento e inizi del novecento – si è discusso molto ancora ai giorni nostri. Ma uno studio dell’Osservatorio dei Colli Albani per l’Archeologia, che si presenta per la prima volta in questa sede, ha finalmente consentito di riconoscere la pianta della villa di Vermicino in base alla Carta Archeologica del Lazio redatta tra 1850 e 1870 da Pietro Rosa. Ancora dobbiamo ringraziare il prezioso lavoro di questo straordinario archeologo, alla vita e opere del quale dedicheremo quanto prima un articolo su questo sito.
Pietro Rosa. Poiché torneremo spesso sulle carte di Pietro Rosa, consigliamo brevemente il modo corretto per consultarle. Egli non disponeva di una base cartografica in scala sulla quale collocare le presenze archeologiche (la prima, più adatta a rilievi di dettaglio archeologici, fu elaborata su scala nazionale dall’Istituto Geografico Militare subito dopo l’Unità d’Italia: la cosiddetta “tavoletta” I.G.M. in scala 1:25.000). Pertanto fu costretto a disegnare lui stesso la base cartografica rilevando di volta in volta monti, colli, fossi, strade, edifici e tutto ciò che appariva in superficie; durante i rilievi in campagna si servì di disegni riportati su piccoli fogli (le cd. “veline” ora conservate nell’Archivio Storico della Soprintendenza archeologica di Roma a Palazzo Altemps); la stesura finale di questi studi venne elaborata sulla Carta Archeologica del Lazio, un documento preziosissimo, tra l’altro di ragguardevoli dimensioni. In entrambi i casi, le basi cartografiche vennero rese a colori mediante la tecnica dell’acquarello; in particolare, strade ed edifici ottocenteschi vennero disegnati color seppia, mentre tutte le emergenze archeologiche (ville, strade, ecc.) vennero riportate rigorosamente con il colore nero. Benché non fosse stato redatto in scala, questo lavoro di inestimabile valore scientifico di Pietro Rosa mantenne comunque le proporzioni spaziali: si è stimato infatti che egli produsse rilievi in scala 1: 20.000 circa.
La villa di Vermicino – che abbiamo indicato con una freccia rossa nella planimetria che segue – dista circa 3,2 km in linea d’aria da Frascati e oggi si trova presso la (moderna) via Tuscolana, il cui andamento ottocentesco viene da noi evidenziato dalla serie di frecce bianche; la sicura collocazione topografica dell’edificio viene inoltre assicurata dalla presenza della via Cavona che ricalca un’antichissima strada romana, la Via Valeria, probabilmente lastricata da Valerio Messalla Corvino (il tracciato è quello della celebre via di transumanza, comunque ancora più antico, che risale all’età pre protostorica).
La Carta archeologica di Roma. Redatta a partire dagli anni ’80 del secolo scorso (la cd. “Carta dell’Agro”) ormai non riporta alcun resto della villa romana, ma solo un’area di frammenti fittili (cocci di ceramica antica e frammenti di materiali vari che si presentano erratici in superficie). Ma è importante questa carta perché riassume i dati topografici della zona, riportando la presenza di una strada romana che Pietro Rosa non vide (la n. 263s) e quella di ben due acquedotti famosi: l’Anio Vetus e l’Aqua Claudia che scorrono sotto terra parallelamente.
Dunque la villa si collocava tra due acquedotti ipogei e presso l’incrocio (compitum) di due tracciati stradali antichi, uno dei quali assai importante. Alcuni puntini sulla carta del Rosa disposti a distanza regolare ad est della villa (ma forse anche ad ovest) sono da ricondurre ai pozzi (putei) dell’Anio Vetus che immettevano nel cunicolo sotterraneo dove scorreva l’acqua, che Pietro Rosa poteva ancora vedere alla fine dell’800.
La sicura identificazione della villa con quella rilevata da Pietro Rosa e che pubblichiamo per la prima volta in questa sede, oltre che attraverso la collocazione topografica in base alla rete viaria, è anche assicurata da un’annotazione di Thomas Ashby che ancora ai primi anni del ‘900 vide ciò che rimaneva dell’edificio, descrivendo la presenza di una curiosa struttura circolare all’interno della villa eseguita in opera mista, che si può ben vedere nel dettaglio qui sotto e che campeggia al centro del terrazzamento superiore; ad ovest della struttura circolare, disposto sul medesimo terrazzamento, figura un ambiente rettangolare che sembra racchiudere la struttura circolare, il quale mostra l’asse longitudinale orientato allo sesso modo di un altro ambiente simile, posto a settentrione con il quale sembra comunicare, il cui asse longitudinale risulta però sfalsato rispetto ad esso. Il terrazzamento inferiore mostra un andamento circolare a sud ovest, dove si sviluppa maggiormente in ampiezza, risultando in qualche modo eccentrico rispetto alla sommità; al margine appare una struttura rettangolare (una cisterna?), accanto alla quale figurano altre strutture murarie disposte al margine del terrazzamento con parziale andamento circolare.
Per quanto riguarda la datazione dell’edificio, essa risulta piuttosto controversa a causa delle modalità del rinvenimento e delle varie notizie che alludono a strutture di vari periodi; l’impianto parrebbe risalire all’età augustea o appena dopo, mentre vari rifacimenti sembrano relativi ai secoli successivi, fino al IV sec. a.C., come attestano i mosaici policromi che si presentano ora.
***
I MOSAICI DELLA VILLA DI VERMICINO
Nonostante le numerose lacune, i vari riquadri mostrano in sequenza spettacoli circensi che alternano combattimenti tra gladiatori (pugnae), tra uomini e animali (bestiari) e caccie (venationes).
I singoli duelli dei gladiatori sono qui accompagnati da iscrizioni che menzionano i nomi dei due gladiatori opposti in combattimento, spesso separati dalla dicitura VS (versus) che significa “contro”. Di norma viene rappresentato il momento culminante del duello, in qualche caso anche la morte del gladiatore, il cui nome viene fatto seguire dal segno ø detto theta nigrum (potrebbe essere un theta greco (θ), iniziale della parola θανατος (thanatos = morte), oppure il segno della O barrato, con il significato di obit (morì).
Il combattimento con animali (bestiarius) comprendeva due diverse categorie di persone: nella prima i condannati a morte destinati ad essere sbranati dalle fiere, la seconda includeva i venatores, personaggi che affrontavano le belve per denaro (non sono comunque considerati gladiatori). Invece, la condanna a morte per sbranamento (ad bestias) veniva inflitta solo per reati gravi. I condannati venivano denudati e costretti a difendersi contro tigri e leoni gli animali più utilizzati per questo macabro spettacolo, insieme a orsi, leopardi, tori e lupi. A volte, invece, venivano usate belve più piccole, come i cinghiali e le iene, per prolungare l’agonia.
I mosaici di Vermicino mostrano entrambe le figure sopra menzionate: i condannati a morte ed i venatores armati di sola lancia che affrontano una belva feroce alla volta, oppure gruppi di uomini, sempre armati di sola lancia, che affrontano animali forse all’interno di foreste opportunamente ricostruite e allestite nei circhi (venationes). Nel primo caso viene rappresentato un uomo che affronta una pantera; nel secondo appaiono le caccie a vari tipi di animali, sia esotici (leoni, antilopi e struzzi) che locali (cinghiali, tori e cervi). A lato di un pannello vengono rappresentati anche numerosi condannati a morte riversi a terra, morti o gravemente feriti perché costretti a misurarsi a mani nude con animali feroci (in questo caso tentano di difendersi da un toro).
In tutte queste rappresentazioni i mosaici di Vermicino riportano accuratamente numerosi dettagli delle vesti, armamenti ecc., che fanno pensare a maestranze specializzate in questo tipo di rappresentazioni, evidentemente molto richieste, che esibiscono un repertorio figurativo ben collaudato; non è escluso che si tratti di maestranze straniere, forse nord africane.
La presenza dei vari nomi di gladiatori o di personaggi che affrontano le fiere, riconduce ad una committenza che conosceva perfettamente mondo circense e che forse ne era addirittura direttamente coinvolta. Forse non siamo lontani dal vero se ipotizziamo la presenza di combattimenti svolti da personaggi appartenenti ad una particolare scuderia, il che farebbe pensare alla villa di un ricco impresario circense; naturalmente non si può escludere una committenza più generica, magari rappresentata da semplici appassionati di spettacoli circensi, assai diffusi ed apprezzati nel mondo romano.
***
GLI SPETTACOLI CON I GLADIATORI
Gli spettacoli nei circhi furono inizialmente organizzati da privati (munera) e sono documentati già a partire dal III sec. a.C., mentre attorno al 100 a.C. diventano pubblici, quando i gladiatori provenienti da circhi privati vennero reclutati per addestrare l’esercito romano. Anche l’imbarazzante esperienza di quegli anni relativa alla rivolta capeggiata da Spartaco, che mise a dura prova l’esercito romano, convinse lo stato romano ad esercitare un controllo diretto sulle varie scuole di gladiatori sparse in tutta la penisola.
Questi spettacoli aumentarono sensibilmente in età imperiale anche per la loro capillare distribuzione in tutto l’impero e la concomitante nascita di anfiteatri di grandi dimensioni, come avvenne a Roma in età flavia.
Nel IV secolo vennero ufficialmente proibiti dall’imperatore Costantino, ma l’avvento del cristianesimo non riuscì a proibire del tutto questi spettacoli che, a quanto pare, si tennero sporadicamente fino all’alto medioevo.
L’addestramento dei gladiatori al combattimento nell’arena avveniva in luoghi privati denominati ludi. Il proprietario, il lanista, prestava i gladiatori, dietro compenso, all’organizzatore dei giochi (editor o munerarius); se il gladiatore fosse morto durante il combattimento doveva comunque riscuotere la somma pattuita; infatti l’editor, oltre a pagare il prezzo d’ingaggio, risarciva al lanista anche il valore del gladiatore, una sorta di indennizzo per i suoi mancati guadagni futuri. L’attività del lanista era in genere poco stimata nel mondo romano e considerata di livello infimo, persino più basso di quello dei lenoni.
Attorno ai gladiatori sono sorti molti luoghi comuni che debbono essere smentiti. A cominciare dal fatto che la loro morte in combattimento era assai rara, e tanto meno che essa avvenisse su richiesta della folla; anche la celebre frase “ave Caesar morituri te salutant” che sarebbe stata pronunciata all’inizio di ogni combattimento, non corrisponde affatto a verità, così come altre credenze circa il pollice verso, ecc.
I gladiatori prendono il nome dal gladio, la tipica spada corta. La richiesta sempre maggiore di spettacoli più divertenti e curiosi, oltre che crudeli, creò un mondo assai variegato di esibizioni che vedevano scendere nell’arena – oltre ai gladiatori professionisti oppure alle prime armi – anche vari soggetti provenienti dalle prigioni costretti a combattere tra di loro (prigionieri di guerra, assassini ecc.) oppure schiavi e a quanto pare anche cristiani; ma non mancarono personaggi alle prime armi, addirittura donne (ricercatissimi i combattimenti tra di loro) che in qualche caso vennero opposte anche a dei nani.
Il mondo dei gladiatori professionisti era invece assai variegato; nei combattimenti di norma venivano opposti tra loro soprattutto Reziari, Secutores, Mirmilloni, Traci e Dimachaeri, ciascuno equipaggiato diversamente e a cui erano consentiti colpi opportunamente regolamentati, in modo da bilanciare per ciascuna categoria vantaggi e svantaggi. Normalmente si opponevano i Reziari ai Secutores (contraretiari) ed i Traci ai Mirmilloni.
Il Reziario. Apparso nella prima età imperiale, combatteva senza elmo né scudo ed era protetto solo da un parasplalla (galerus) ed un parabraccio (manica). Il Reziario prende il nome dalla rete da lancio ed impugna il classico tridente (fuscina); inoltre, egli è dotato di un pugnale.
Il Secutor. La figura del Secutor, cioè “l’inseguitore” era rappresentata in realtà da un mirmillone i cui colpi erano studiati esclusivamente per il combattimento contro il Reziario. Riconoscibile dall’elmo ovale che non doveva offrire alcun appiglio alla rete lanciata dal suo avversario, il quale copriva interamente il volto ostentando solo alcune fessure. A quanto pare, questa limitazione del campo visivo evitava che il reziario potesse cavargli gli occhi. È noto infine che egli non aveva scampo se veniva imprigionato nella rete del reziario.
Il Mirmillone. Ostentava un fisico possente, esaltato da un’armatura completa: l’elmo con le tipiche decorazioni marine ricopriva tutta la testa; lo scutum, cioè il grande scudo rettangolare concavo (del tipo in dotazione alla fanteria romana) ricopriva tutto il corpo, tranne testa e gambe, che però erano entrambe riparate da un solo schiniere (ocrea); il Mirmillone impugnava il gladio come unica arma da offesa. Durante la lotta spostava lo scudo solo per brevi attacchi con il gladio, risultando essere una sorta di fortezza inespugnabile per l’avversario, spesso il più abile Trace che lo attaccava lateralmente, sfruttando la relativa lentezza del Mirmillone
Il Trace. L’armamento richiamava quello dei Traci: una spada a lama ricurva (sica) ed un piccolo scudo rettangolare curvo, quindi assai leggero; egli portava un elmo sormontato da una cresta ornato dalla caratteristica protome di grifo. Proteggeva un braccio con una imbottitura (manica) e la medesima protezione imbottita difendeva entrambe le gambe coprendo anche le cosce.
Il Dimachaerus. Questa figura è poco conosciuta. Combatteva all’arma bianca con due spade (machaire) o solo con due pugnali. Non indossava l’elmo e proteggeva il braccio e le gambe con imbottiture; talvolta indossava gli schinieri.
Ma le classi dei gladiatori annoveravano numerosi altre figure. Ad iniziare dall’età repubblicana, figurano i primi gladiatori i cui nomi derivano dalle rispettive località di provenienza, come i Sanniti, oppure i Galli. Con la riforma augustea, questi ultimi scomparvero, lasciando spazio ad altre figure, ad esempio gli Eques che aprivano i giochi gladiatori con combattimenti a cavallo. Per attirare le folle, gli spettacoli divennero sempre più sofisticati ed apparvero combattimenti assai eccentrici e curiosi come le varie classi di gladiatori che si vennero a formare; l’hoplomachus, il pontarius, lo scissor, il provocator, l‘essedarius, il sagittarius, l‘andabata, il laquearius, il paegniarius, il veles, il venator, il crupellarius, lo scaeva.